invariabilmente destinato alla catastrofe. Con i Lego l’atmosfera cambia e sembra esserci più vita. Le costruzioni sono un può bizzarre, a volte futuristiche, costruite in una verticalità pericolosa che finisce invariabilmente per cadere. Ma lui insiste e ricomincia, aggiusta e cerca di ricostruire in modi sempre diversi. Arrivo a parlare di questo come del Mondo del futuro in cui è difficile crescere, ma che sembra avere al proprio interno una spinta propulsiva e vitale.
Piano piano però anche le costruzioni del mondo del futuro cominciano ad assumere la forma di armi. Un giorno la costruzione richiamava ai miei occhi una grande pistola che cadendo, come di consueto, aveva formato alcune piccole pistole. Così ho esclamato: “Sembra che da un grande pistolone siano nati tanti pistolini!”. Leo scoppia in una grande risata, cogliendo l’evidente doppio senso di cui mi ero resa conto anche io, ma troppo tardi. Leo aveva già compiuto 13 anni e la sessualità era sicuramente nel suo orizzonte.
Onestamente mi sono molto vergognata della mia ingenuità: forse mi ero ammalata della malattia del campo (Ferro, 2002) ed ero diventata po’ sempliciotta, non più una terapeuta “So tutto”. Quando la settimana successiva Leo è arrivato in seduta, ha voluto riprendere il tema del “pistolone” e dei “pistolini” chiedendomi di raccontargli quello che era successo.
Nasce in questo modo quello che diventerà “La storia” lunga 8 anni, quasi tutto il tempo della terapia. Questa evoluzione credo che sia stata possibile grazie alla caratteristica di Leo di raccontare storie (con il papà e con la nonna) e chissà, magari anche cogliendo una mia sensibilità particolare verso la narrazione, visto il mio lungo lavoro con Antonino Ferro. Potremmo pensare che il Pistolone ed i Pistolini siano i personaggi di una narrazione finalmente possibile di aree che fino a quel momento erano rimaste mute (Ferro, 2008), o che forse fino a quel momento erano state agite attraverso gli scoppi d’ira o di parolacce quando, diventate troppo intense ed incandescenti, Leo non riusciva a congelarle sotto la coltre di neve.
La storia è ambientata nel Mondo del Futuro: un luogo sospeso e non ben definito, pieno di macerie in cui i robot (evoluzione del Pistolone e dei Pistolini) distruggono ogni cosa. Una macchina mamma garantisce il continuo rifornimento dei robot. Il capo dei robot è MISTER FUTUROS.
Poiché Leo si dilungava nel raccontarmi i dettagli di Mister Futuros, che aveva le braccia che diventavano armi, la testa che era di ferro con una specie di elmo, gli chiedo di disegnarlo per aiutarmi a meglio comprenderlo.
Dopo qualche tempo, nel corso della visita al museo di Picasso a Parigi, resto senza parole quando trovo in un quadro, Massacro di Corea, praticamente il ritratto di Mister Futuros, un esercito di Mister Futuros. Sono gli uomini robotizzati, cioè disumanizzati, che uccidono donne e bambini inermi, evidenziandone la crudeltà. Mi ritrovo a provare ammirazione per Leo, orgogliosa della sua sensibilità e capacità espressiva, anche se grezza.
Vorrei soffermarmi un momento nel descrivere un aspetto tecnico, in particolare sul come viene costruita la storia all’interno della nostra relazione terapeutica. Inizia come una storia tramandata oralmente. Leo nel mondo del futuro muove i personaggi-Lego (Pistolini, Pistoletti, Pistolacci) costruendo scene di lotte, guerre e distruzioni che io descrivo, narro cercando di tenere insieme sia le azioni che i commenti che faccio e facciamo insieme. Nella seduta successiva Leo mi chiede “A che punto siamo arrivati?”. Inizialmente penso che abbia bisogno di verificare, testare, che lo tengo in mente, che ciò che accade in seduta non cade e non si perde in un buco nero. Da quel
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Adolescenza, autismo e terapia psicoanalitica: alcune riflessioni attraverso due situazioni cliniche- dott.ssa Cinzia Morselli
Adolescenza, autismo e terapia psicoanalitica: alcune riflessioni attraverso due situazioni cliniche.
di Cinzia Morselli – 3 Febbraio 2025, Firenze
Ringrazio per questa bella opportunità di poter discutere il mio lavoro in quella che è la mia casa d’origine, quella in cui sono nata analiticamente e mi sono formata professionalmente.
Tra i tanti aspetti che fanno parte del lavoro di un analista infantile, mi sono trovata ad occuparmi di autismo in uno dei miei casi di training … e mi ci sono appassionata. Trovo affascinante il modo in cui si costruisce la mente e come essa, nonostante le innumerevoli difficoltà che può incontrare a livello organico, ambientale e relazionale, proprio come accade all’interno di questo tipo di disturbo, essa cerchi ugualmente di emergere e svilupparsi.
L’autismo è ancora oggi un universo piuttosto misterioso in cui tanti interrogativi restano aperti. La grande contrapposizione tra approcci teorici, clinici e di trattamento che ha caratterizzato gli ultimi 20 anni non ha di fatto aiutato, e non aiuta, a fare chiarezza verso un quadro che – cito – “oggi si potrebbe ragionevolmente pensare come poli-fattoriale in cui sono coinvolti molteplici fattori biologici, genetici ed ambientali. Conseguentemente l’approccio al trattamento dovrebbe essere multidimensionale”.
Questa è una citazione tratta dal sito della CIPPA, e qui vorrei aprire una breve parentesi prima di passare a trattare il tema della serata.
Sono da anni iscritta alla CIPPA, associazione che ho conosciuto all’epoca della ricerca INSERM sull’efficacia della psicoterapia applicata all’autismo, ricerca alla quale ho partecipato, insieme ad altri colleghi AMHPPIA oramai qualche anno fa. CIPPA è un acronimo che sta per “Coordinamento Internazionale tra Psicoterapeuti Psicoanalisti e membri associati che si prendono cura di persone Autistiche”. E’ un’associazione francese fondata da Geneviève Haag (scomparsa nel 2023) e Dominique Amy circa 20 anni fa, con l’intento di riunire in un’unica casa tutti gli psicoanalisti, al fine di confrontarsi, discutere e condividere pensieri, opinioni ed esperienze a partire dalla clinica per poi, successivamente, aprirsi al mondo scientifico e dialogare con le neuroscienze, la biologia e la genetica, ma anche con i vari approcci educativi e riabilitativi, in uno spirito di confronto tra diversi con pari dignità scientifica e che condividono la stessa dimensione etica.
La collaborazione con i genitori è parte fondante dell’associazione – Geneviève Haag fu insignita della medaglia d’onore per i suoi meriti scientifici nel lavoro con i bambini autistici su segnalazione di alcune associazioni di genitori. La CIPPA pone e propone la convinzione che vada posta attenzione alle particolarità neurologiche, sensoriali e cognitive delle persone con autismo tanto quanto alle angosce corporee e relazionali che le accompagnano. E’ ferma convinzione che sia necessario lavorare nella direzione di allentare i meccanismi protettivi promuovendo in questo modo il dispiegamento delle capacità, della creatività e, perché no, della gioia di vivere delle persone con autismo. Per perseguire questi scopi la CIPPA ha articolato il proprio lavoro attraverso Gruppi di Studio che approfondiscono temi specifici (per esempio lo sviluppo del linguaggio, oppure il rapporto tra l’autismo e le nuove tecnologie e così via). Ogni anno vengono organizzate varie giornate
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scientifiche per discutere e condividere il materiale prodotto dai vari gruppi e ogni due anni si tiene un grande congresso internazionale. E’ quindi un’associazione molto attiva e vivace.
La vocazione internazionale della CIPPA si è concretizzata anche attraverso la formazione e costituzione di altri centri oltre i confini francesi: recentemente si è costituita una CIPPA sudamericana che raccoglie colleghi di quell’area mentre in Italia, con un piccolo gruppo di colleghi che fanno parte dell’AMHPPIA, dell’AIPPI, della SPI e della SPP stiamo cercando di dare vita ad una CIPPA Italia: Berenard Golse (presidente) e Armelle Barral (segretario scientifico) attualmente in carica, ci sostengono molto e fanno il tifo per noi.
Ci si potrebbe chiedere se ha ancora un senso occuparsi di autismo quando nei nostri studi vediamo sempre meno bambini che, una volta ricevuta la diagnosi, vengono inviati ai vari servizi territoriali che usano un approccio cognitivo-comportamentale (ABA) o, quando va meglio, cognitivo-relazionale (Denver Model).
Perché ostinarci, allora, ad occuparci psicoanaliticamente di autismo? Perché, come ha detto e scritto più volte Anna Alvarez, il metodo psicoanalitico funziona, ed inoltre possiede quella dimensione etica nell’approccio al paziente e alla sua famiglia che non solo è condivisibile, ma è esso stesso parte del processo terapeutico. Recentemente Elena Molinari (2024) ha affermato che da più parti si è iniziato a sottolineare l’importanza delle emozioni e delle fantasie e che gli interventi, per essere efficaci, debbano mirare ad attivare “dall’interno” le interazioni, l’intersoggettività e la reciprocità. Insomma qualcosa si sta muovendo … finalmente!
Per tornare al tema di questa serata, il nostro sguardo sarà rivolto ad un’area particolare della galassia dell’autismo che è il periodo adolescenziale. Possiamo ragionevolmente pensare che la montata pulsionale e l’intensità con cui si presentano le emozioni in questo periodo, possano mettere in grande difficoltà una struttura psichica fragile o non ancora compiutamente formata, che magari non possiede ancora pienamente la funzione del contenimento, che ha una fragile nozione dello spazio/tempo, che mal tollera la frustrazione del tempo dell’attesa o della diversità rispetto al sé o al proprio impulso o desiderio.
Quando si parla di Disturbo del neurosviluppo, la componente organica è da tenere sempre presente valutandone attentamente il grado di compromissione. Robin Halloway (2013) afferma che si può ragionevolmente pensare che quei ragazzi che sono più pervasivamente e seriamente autistici (quelli che, per esempio, non hanno un linguaggio ed hanno un QI molto basso) siano coloro che abbiano un maggior grado di compromissione neurologica su base organica, anche se non va mai dimenticato che un ritardo, o una difficoltà, nell’attaccamento riverberano anche neurologicamente (vedi Mitrani 2010 per un approfondimento della relazione tra le teorie psicoanalitiche e le ricerche neurologiche in riferimento all’autismo).
L’elemento traumatico, a cui fa cenno Halloway, richiamando la Tustin e la Alvarez, ha attinenza alla difficoltà, o anche a volte all’impossibilità, per questi bambini, o per la coppia madre- bambino, di essere e rimanere tra loro in contatto psichicamente e non solo nell’attualità del corpo. La prima individuazione, come ci hanno insegnato i nostri maestri, nasce a partire dall’Io corporeo. Il bambino percepisce il proprio corpo come parte di quello della madre (Genevieve Haag ne parla come se fossero due valve). Quando lo sviluppo è sano, piano piano si formano collegamenti elementari che si incarnano progressivamente nelle articolazioni del corpo stesso in una sequenza
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evolutiva che inizia, per il bambino, dal sentire che la sua testa è bene attaccata alle sue spalle. A 3 mesi così può sostenere la propria testa da solo, dopo 2-3 mesi è capace anche di sedersi da solo e tra i 10-15 mesi le braccia, le mani, le gambe, ed i piedi sono emotivamente legati al tronco ed il bebè è diventato un piccolo bambino che può gattonare, stare in piedi e camminare. Questi sviluppi fisici coincidono con un aumento della tolleranza della consapevolezza riguardo alla separazione corporea ed emotiva dalla madre. Un’appropriata incarnazione è il risultato del sentimento del bambino di essere in armonia con il proprio corpo: in questo gioca un importante ruolo la madre e la sua capacità di rimanere responsiva, sostenendo la separazione e fornendo al bambino adeguati confini psicologici, fornendogli una sorta di “lezione oggettuale” come direbbe Mitrani (2007). Quando queste iniziali sfide non vengono vissute in modo soddisfacente da entrambe le parti, il bambino sperimenta la separazione corporea come una minaccia al sé e all’esistenza della madre. In questo stato mentale l’esistenza delle “cose” è ciò a cui aggrapparsi per rassicurarsi della propria esistenza. La sensualità del corpo, del tatto in particolare, si impone come certezza della presenza e sembra non riuscire a diventare simbolica, mediata dal pensiero, dalla mente. Si affaccia allora l’esperienza della caduta infinita, del terrore senza nome e del buco nero che inghiotte in un senza tempo e senza spazio. E’ da queste esperienze che il bambino, l’infante, si difende ritraendosi, rinchiudendosi difensivamente nel proprio corpo e smantellando la propria mente.
L’adolescenza è, come diceva Freud, “il secondo tempo della pulsione”, una seconda opportunità che ci viene offerta per ridiscutere, affrontare l’irrisolto o il mal risolto, di nuovo a partire dal corpo. Peter Blos a sua volta parla di “seconda individuazione”, che comporta non solo il riconoscimento dell’altro con una propria soggettività, ma implica anche l’instaurarsi della capacità di costruire relazioni con il gruppo dei pari e con l’altro in termini più adulti, con le relative implicazioni in termini di pulsioni, desiderio, meta e scelta di oggetto, anche sessuale. Nei ragazzi con autismo questo passaggio può risultare oltremodo complesso in quanto lo stato autistico ha tagliato via, o limitato significativamente, le esperienze relazionali infantili, i loro oggetti interni spesso possiedono qualità che sono state presumibilmente distorte, impoverite o disorientate/istupidite. Si devono fare i conti con le parti non nate o non rappresentate del sé. Ecco allora che un senso di goffaggine e di non connessione colora in molti modi anche l’esperienza dell’adolescente sia sul versante fisico che psichico. Francis Tustin (1986), parlando degli adolescenti dei quali, ho scoperto ,si era molto occupata, affermava che i ragazzi a questa età possono sentire che l’identità scivoli loro via: l’identificazione adesiva, preannunciata dall’imitazione, dall’ecolalia e dall’uso di oggetti e sensazioni autistici hanno tutti il significato, per l’adolescente, di mantenere un tenue senso di alterità. Raymond Cahn, 2008 esprime lo stesso concetto quando afferma che “E’ in adolescenza che si inaspriscono gli ostacoli interni ed esterni all’appropriazione da parte del soggetto dei suoi pensieri, del suo corpo, della sua identità. Da qui osserviamo la tendenza alla regressione narcisistica, alla scissione, alle identificazioni adesive, alla ricerca spasmodica di una propria autenticità…..”.
Ma il periodo adolescenziale può anche fornire nuove occasioni e nuovi orizzonti possibili: l’adolescenza è anche un enzima dello sviluppo, ci dice Anna Nicolò (2021). E mi piace pensare che possa esserlo anche per i ragazzi con disturbo del neurosviluppo.
Vorrei portare due esemplificazioni cliniche di due ragazzi che ho seguito, o che sto seguendo, in terapia: Leo arrivato in consultazione all’età di 12 anni e Ercole, arrivato all’età di 9 anni e mezzo, sulle soglie dello sviluppo puberale.
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LEO
Il papà di Leo mi contatta, su consiglio del medico di base, quando il figlio ha 12 anni e stava frequentando la seconda media. Intorno ai 3 anni e mezzo a Leo era stata fatta una diagnosi di “Autismo Atipico” dal Servizio di Neuropsichiatria Infantile del territorio.
Al primo colloquio è il padre a parlare mentre la madre resta per lo più sullo sfondo e quando prende la parola, si rivolge al marito più che a me, come se la intimorissi enormemente. Si sentono inadeguati come genitori, si giudicano incapaci nello svolgere il ruolo genitoriale, sentendosi molto in colpa per questo. Raccontano che la signora era entrata in depressione post-partum e, quando si era ripresa, si erano accorti che c’era qualcosa che non andava nel bambino, per questo avevano cercato aiuto al Servizio territoriale. Avevano poi seguito scrupolosamente le indicazioni che erano state loro fornite, anche se a volte con molte perplessità. Per esempio, hanno forzato Leo ad andare alla scuola materna anche se lui non andava volentieri e si pentono per questa forzatura. Le “stranezze” di Leo erano emerse in particolare in concomitanza dell’emergere del linguaggio: doveva essere lui ad accendere le luci, o a tirare lo sciacquone, guai se lo faceva qualcun altro. Aveva crisi di rabbia che lo portavano a picchiare per esempio la nonna, ma anche l’insegnante elementare. I trattamenti che la ASL aveva messo in campo erano cicli educativi, non meglio precisati, che i genitori descrivono dalla finalità poco chiara, inutili e senza grande costrutto dal loro punto di vista.
All’ingresso della scuola media viene fatta una nuova valutazione diagnostica che porta ad una modificazione del quadro in “Ritardo mentale lieve (F 70.1) con tic motori multipli (F95.1)”. I genitori si chiedono come possa essere stato possibile un tale cambiamento, mentre si accentua il senso di inadeguatezza al ruolo genitoriale, che li prostra profondamente, deprimendoli.
I genitori descrivono Leo come un ragazzino isolato e per lo più tranquillo, in preda a Tic differenti che si presentano ciclicamente, la cui durata non è prevedibile. Ha grandi paure che lo disorientano molto – motivo per cui non si fidano a fargli fare nulla da solo. Ogni tanto ha scoppi di ira anche piuttosto violenti in cui arriva ad insultare pesantemente chi c’è, anche estranei, usando parolacce e bestemmie, lasciando i genitori completamente basiti – raccontano un episodio di qualche giorno prima che li aveva molto sconfortati: “Era da tanto che non succedeva”. Raccontano che Leo ha bisogno di momenti in cui isolarsi: ama in quelle occasioni prendere un bastoncino e lanciarlo in alto, facendolo roteare, per poi riprenderlo al volo. E’ molto abile in questa attività che ha un effetto rasserenante e che può durare ore. Leo ama da sempre raccontare storie anche se un po’ fragili come struttura, dice il padre: con lui costruisce storie sulla banda bassotti, mentre con la nonna racconta storie in cui lui è trionfante.
Arrivo all’incontro con una grande curiosità. Ho tanti punti interrogativi in mente riguardo a questo ragazzino. Si presenta longilineo, ben curato, delicato e con un aspetto immaturo rispetto alla sua età: ritrovo quindi in un certo senso la descrizione dei genitori. Quando, nella stanza di terapia, resta fermo ed immobile sul tappeto, sento di dover essere io un po’ sollecita -come tendo a fare con i bambini che si mostrano molto intimiditi dall’ambiente nuovo ed estraneo. Così comincio a frugare nella scatola e tiro fuori il sacchetto degli animali. Lui li guarda, li estrae uno a uno e, nominandoli, li dispone sul tappeto. Poi si ferma. Prendo il sacchetto dei soldatini: silenziosamente li dispone sul tappeto, divisi per colore e, di nuovo, non ci fa nulla. Così con gli altri oggetti della scatola. E’ accondiscendente, pacato e tranquillo, non si oppone mai, ma non è realmente partecipe. E’ con i Lego che sembra animarsi, immergendosi nel compito di costruire un edificio, lungo lungo e
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stretto (come è lui) con una base piccolina che fa sì che la costruzione crolli facilmente, ma lui ricomincia sempre, tenacemente. Alla fine del tempo commenta: “Non credevo che lavorare con i Lego fosse così”. Mi è sembrato di buon auspicio per il nostro lavoro. Alla seconda seduta di osservazione in cui si ripercorre lo schema dell’incontro precedente, mi dice, tra le altre cose, che non gli piace disegnare. Gli chiedo cosa disegna solitamente e lui mi risponde “Quello che ho nella testa”. Sono molto colpita: non mi sembra un’affermazione da “insufficienza mentale”. Inoltre sembra squarciare il velo della bidimensionalità (c’è la percezione di un interno) e dell’adesione acritica all’altro e alle sue richieste. Sarà solo nell’ultima seduta di assessment che alla fine, dietro mie insistenze, Leo disegnerà quello che ha nella testa: Un vulcano con la cima coperta di neve. Il mio pensiero va ad una lezione di Gianna Polacco nel periodo della mia formazione, quando ci insegnava, e mostrava, come i bambini possano rendersi “stupidi” per proteggersi dal dolore mentale, in presenza di adulti che non com-prendono e non sono in grado di supportarli emotivamente in modo adeguato.
Francis Tustin in “Barriere autistiche in pazienti nevrotici” (pag. 209) descrive un bambino di 5 anni, Pierre, da lei seguito in supervisione. Pierre, dopo aver giocato con i Lego facendo costruzioni in attesa che arrivasse la sua terapeuta (Anik Maufras de Chevallier), nel corso della seduta disegna un vulcano. L’aver potuto giocare con mattoncini solidi, sostiene la Tustin, gli aveva permesso di sentirsi sostenuto da una colonna vertebrale e quindi di poter tenere sotto controllo le sensazioni simili alla lava, quelle stesse sensazioni che, precedentemente, eruttando come la lava, perdeva, sentendosi cadere e percependosi come niente. Tutto era andato.
Potremmo allora pensare che Leo ha sperimentato il piacere di sentirsi contenuto – “non pensavo che lavorare con i Lego fosse così!” – ed ha potuto rappresentare il dentro, le emozioni che scorrono ed erompono violente, all’improvviso – i suoi scoppi d’ira, gli insulti, le parolacce e le bestemmie che si trovava a proferire, come eruttando all’improvviso. Ma Leo non ha 5 anni, ne ha 12. E’ da lungo tempo che si trova in questa condizione e ha trovato il suo modo per farvi fronte: gelando la sua testa. Si potrebbe così leggere il passaggio dalla diagnosi di autismo alla diagnosi di insufficienza mentale che gli è stata da poco appioppata.
Non appare sicuramente come il disegno di un ragazzino di 12 anni, ma quello che vorrei sottolineare in particolare, è il fumo: quello che avrebbe dovuto essere un elemento di calore, risulta essere un buco nero. Come non pensare alla depressione materna? Dove avrebbe dovuto esserci calore, scambio e condivisione, c’è stato al suo posto freddezza, assenza e buio.
Poiché la famiglia non può permettersi una terapia intensiva, inizio il mio lavoro con Leo con una cadenza settimanale. Ho molti dubbi e interrogativi: mi chiedo se potrà avere un senso intervenire in modo così blando e così tardi con un ragazzino così grande che ha la percezione di una propria potenzialità esplosiva. Inoltre c’è la pubertà che sta arrivando, o è già arrivata. Sono anche un po’ inquieta: come farò, visto che sono da sola in studio, se dovessero arrivare esplosioni o colate di lava incandescente? Nonostante queste perplessità iniziamo il lavoro terapeutico.
Inizialmente le scene che vengono create con gli animali e gli altri giochi della scatola, sono connotate da morte e prevaricazioni violente: animali che si azzannano alla gola, uomini che si sparano alla testa, macchine che si scontrano furiosamente. La distruzione è totale ed alla fine mai nessuno sopravvive: animale, umano o meccanico che sia, infatti anche le automobili finiscono a ruote all’aria. Ogni mondo è a sé stante, non ci sono commistioni, almeno inizialmente, ed è
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invariabilmente destinato alla catastrofe. Con i Lego l’atmosfera cambia e sembra esserci più vita. Le costruzioni sono un può bizzarre, a volte futuristiche, costruite in una verticalità pericolosa che finisce invariabilmente per cadere. Ma lui insiste e ricomincia, aggiusta e cerca di ricostruire in modi sempre diversi. Arrivo a parlare di questo come del Mondo del futuro in cui è difficile crescere, ma che sembra avere al proprio interno una spinta propulsiva e vitale.
Piano piano però anche le costruzioni del mondo del futuro cominciano ad assumere la forma di armi. Un giorno la costruzione richiamava ai miei occhi una grande pistola che cadendo, come di consueto, aveva formato alcune piccole pistole. Così ho esclamato: “Sembra che da un grande pistolone siano nati tanti pistolini!”. Leo scoppia in una grande risata, cogliendo l’evidente doppio senso di cui mi ero resa conto anche io, ma troppo tardi. Leo aveva già compiuto 13 anni e la sessualità era sicuramente nel suo orizzonte.
Onestamente mi sono molto vergognata della mia ingenuità: forse mi ero ammalata della malattia del campo (Ferro, 2002) ed ero diventata po’ sempliciotta, non più una terapeuta “So tutto”. Quando la settimana successiva Leo è arrivato in seduta, ha voluto riprendere il tema del “pistolone” e dei “pistolini” chiedendomi di raccontargli quello che era successo.
Nasce in questo modo quello che diventerà “La storia” lunga 8 anni, quasi tutto il tempo della terapia. Questa evoluzione credo che sia stata possibile grazie alla caratteristica di Leo di raccontare storie (con il papà e con la nonna) e chissà, magari anche cogliendo una mia sensibilità particolare verso la narrazione, visto il mio lungo lavoro con Antonino Ferro. Potremmo pensare che il Pistolone ed i Pistolini siano i personaggi di una narrazione finalmente possibile di aree che fino a quel momento erano rimaste mute (Ferro, 2008), o che forse fino a quel momento erano state agite attraverso gli scoppi d’ira o di parolacce quando, diventate troppo intense ed incandescenti, Leo non riusciva a congelarle sotto la coltre di neve.
La storia è ambientata nel Mondo del Futuro: un luogo sospeso e non ben definito, pieno di macerie in cui i robot (evoluzione del Pistolone e dei Pistolini) distruggono ogni cosa. Una macchina mamma garantisce il continuo rifornimento dei robot. Il capo dei robot è MISTER FUTUROS.
Poiché Leo si dilungava nel raccontarmi i dettagli di Mister Futuros, che aveva le braccia che diventavano armi, la testa che era di ferro con una specie di elmo, gli chiedo di disegnarlo per aiutarmi a meglio comprenderlo.
Dopo qualche tempo, nel corso della visita al museo di Picasso a Parigi, resto senza parole quando trovo in un quadro, Massacro di Corea, praticamente il ritratto di Mister Futuros, un esercito di Mister Futuros. Sono gli uomini robotizzati, cioè disumanizzati, che uccidono donne e bambini inermi, evidenziandone la crudeltà. Mi ritrovo a provare ammirazione per Leo, orgogliosa della sua sensibilità e capacità espressiva, anche se grezza.
Vorrei soffermarmi un momento nel descrivere un aspetto tecnico, in particolare sul come viene costruita la storia all’interno della nostra relazione terapeutica. Inizia come una storia tramandata oralmente. Leo nel mondo del futuro muove i personaggi-Lego (Pistolini, Pistoletti, Pistolacci) costruendo scene di lotte, guerre e distruzioni che io descrivo, narro cercando di tenere insieme sia le azioni che i commenti che faccio e facciamo insieme. Nella seduta successiva Leo mi chiede “A che punto siamo arrivati?”. Inizialmente penso che abbia bisogno di verificare, testare, che lo tengo in mente, che ciò che accade in seduta non cade e non si perde in un buco nero. Da quel
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racconto, Leo riparte con altri eventi e sviluppi. Succede però che più la storia evolve, più diventa difficile per me tenerla a mente, con anche tutti quei dettagli che gli stanno così a cuore. Avevo cominciato a scriverla un po’ per conto mio per timore di dimenticare qualche elemento, andando così a confermare il suo timore di caduta e perdita. Sentivo, però, una nota stonata: se da un lato avevo una performance adeguata, dall’altro c’era qualcosa di falso, mi sembrava di ingannarlo mostrandomi una sorta di Wonder Woman mentre in realtà ero truffaldina. Non potendo rimanere in quella ambiguità, un giorno gli ho proposto di scrivere insieme la storia. Inizialmente non era molto entusiasta dell’idea, ma si è tranquillizzato quando mi sono offerta di essere io a scrivere concretamente.
La storia diventa piano piano il frutto delle nostre menti al lavoro: Leo raccontava, io gli chiedevo approfondimenti, puntualizzazioni, gli chiedevo quali potevano essere le emozioni o le motivazioni in gioco. Solo dopo tutto ciò, vi era la scrittura. Non è sempre stato facile trovare la giusta sintonia: a volte mi sentivo soverchiata dai dettagli, dalla ripetitività e facevo fatica a tenere gli occhi aperti poi magari, ad un certo punto, mi accorgevo che tutti i soldatini e gli animali erano in un unico mucchio, un caos totale di morte. E’ quello che succede quando non c’è una mente attenta e vigile? Elena Molinari (2024) afferma che quando cerchiamo un’intimità con il paziente autistico, ci troviamo anche a proteggere inconsciamente il nostro sè dal contatto con sentimenti che percepiamo come soverchianti, travolgenti. Altre volte, invece, diventavo troppo attiva, suggerendo sviluppi e soluzioni, proponendo passaggi e suggerendo ambientazioni. Avevo imparato che quando Leo si limitava a dire “Già”, o restava silenzioso proseguendo nella sua traiettoria e linea di pensiero, significava che avevo esagerato: la storia era sua e stava cercando di riprendersi il ruolo di autore.
Le evoluzioni che subisce la storia sono tante e a molteplici livelli: dai robot si passa agli umani, dalle macchine-mamma si passa ad una procreazione umana, le ambientazioni diventano sempre più terrestri ed i paesaggi vengono bonificati. Dagli scenari di guerra, si passa a situazioni tipo James Bond, non solo spia scaltra, ma anche seduttore. Arrivano poi sulla scena anche delle ragazze, le relazioni con le quali sono inizialmente contrassegnate da violenza, sadismo e disprezzo, diventando con il tempo più tenere ed anche romantiche.
Per moltissimo tempo, il tempo della seduta è impegnato nella scrittura della storia. Quando arriva in seduta, la prima cosa che mi dice è che ha pensato a degli sviluppi possibili. Leo non parla della sua vita reale, di quello che gli accade nella quotidianità, di quello che sente o pensa. Sarà dai genitori che apprendo dei tanti sviluppi di Leo nella vita reale a livello scolastico, sociale (ha un gruppo di amici di riferimento) e di autonomia – dal non avere più paura dei cani, al poter venire in terapia da solo e per finire nell’estate 2020 andrà qualche giorno in vacanza al mare con gli amici – e di questo mi parlerà anche lui in seduta, uscendo quindi, finalmente, dalla dimensione della storia. Sono poi sempre i genitori a raccontarmi della nuova valutazione diagnostica che viene fatta a Leo al compimento del 18° anno in vista del passaggio al Servizio di Igiene Mentale per gli adulti, dove il QI risulta aver raggiunto la soglia della norma. Insieme all’assistente sociale i genitori decidono però di non enfatizzare il dato per mantenere il sostegno, con l’idea che questo lo possa facilitare nell’ingresso del mondo del lavoro. Negli ultimi tempi di terapia, si sono alternate sedute in cui ci impegnavamo a continuare a scrivere la storia, a sedute in cui Leo invece mi parlava di sé, del suo desiderio di avere la patente, di avere un lavoro e di avere una ragazza con cui avere anche rapporti sessuali “ma non in discoteca, così sarebbe brutto”.
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Quando ho iniziato il lavoro con Leo non avrei mai immaginato dove saremmo arrivati e se questo è una caratteristica comune di tutte le analisi e lavori terapeutici, credo che con i bambini o i ragazzi che si collocano all’interno dello spettro autistico sia ancora più vero. Francis Tustin ha parlato del buco nero in cui si sentono sprofondare i bambini autistici e che per far fronte a questo terrore senza nome mettono in campo difese potentissime che annichiliscono e bloccano la loro mente ed il loro sviluppo. Mi sono trovata a pensare che il “buco nero”, quando inteso in senso astrofisico, indica un pieno così denso dal quale nulla, o quasi, riesce a sfuggire per cui risulta inconoscibile per noi. Ma questo non significa che sia vuoto. E’ da un buco nero che hanno origine le stelle e l’universo stesso pare essere nato in questo modo. Come a dire che non possiamo sapere cosa ci sia dentro ad un bambino che si difende strenuamente e resta caparbiamente chiuso/protetto, non sappiamo di cosa è fatto fino a quando non ci permetterà, se mai lo farà, di entrare e conoscerlo. Ed il nostro compito, la nostra sfida, è proprio questo.
Parlare di una situazione quando si sa come va a finire, per così dire, ci permette di guardare al materiale con il senno di poi, per comprendere passaggi e momenti significativi, ma anche gli errori ed inciampi che si sono verificati. Vorrei presentare ora, brevemente, una situazione in cui sono invece all’inizio. E’ un bambino di 9 anni che vedo da circa un anno una volta a settimana, di nuovo per problemi economici della famiglia. Sappiamo come l’aspetto economico, pur concretamente vero ed autentico nel reale, rappresenta e ci parla dell’economia psichica che, in questi casi possiamo pensare, essere esausta e con poche risorse.
Ercole
Ercole ha 9 anni ed è il secondo di 3 figli: Luigi più grande di 5 anni che all’epoca della consultazione frequentava il primo anno del liceo scientifico, Giorgia, più piccola, era in prima elementare. A Ercole è stata fatta la diagnosi di autismo con l’ingresso della scuola materna: la madre non si era accorta delle difficoltà del figlio e quando le insegnanti gliele avevano segnalate, la signora aveva cambiato scuola, rifiutando i rilievi che erano stati fatti. In realtà ancora oggi tende a descrivere Ercole come un bambino con qualche difficoltà per lo più imputabile alla scuola che non lo sa aiutare. Ercole infatti parla bene, dice la madre, ha un linguaggio evoluto, ma non sa scrivere e non riesce a leggere: questo sento che è il vero motivo per cui chiedono una terapia.
Il racconto dei genitori riguardo alla nascita di Ercole è per me molto penoso da sentire. La signora giovanissima rimane incinta e si “devono” sposare, contro il parere dei genitori di lei in quanto il futuro marito è di una classe sociale ed economica “inferiore”. I ragazzi si sposano ugualmente e vanno a vivere in una mansarda nella casa dei genitori di lui. E’ una convivenza difficile, la suocera, forse con l’intento di aiutare quella giovane ragazza, accudisce il bambino, facendo però sentire la signora depredata del figlio, oltre che sminuita e senza valore. Il marito ha lavori precari che non riescono a trasformarsi in qualcosa di stabile e certo. Questa precarietà legata ai tanti impegni della vita adulta per loro appena ventenni, li porta a sviluppare una forma depressiva a cui fanno fronte attraverso il cibo spazzatura: aumentano notevolmente di peso stabilizzandosi in una forma di obesità (“Non eravamo mica così”, dice la signora). Dopo qualche anno, decidono di non aspettare più per avere il secondo figlio e, pur non avendo ancora il marito un lavoro a tempo
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indeterminato, cercano una casa per conto loro in affitto e nasce Ercole. La signora parla con grande soddisfazione di questa seconda maternità e di come, grazie ad essa, si sia sentita finalmente mamma. Racconta con orgoglio di come abbia portato per tanti mesi, in realtà scoprirò per anni, il bambino “in fascia”, aderente al suo corpo: per i primi due anni circa sul davanti e poi sulla schiena, quando era diventato troppo pesante. Il pensiero va alla presenza di una sensorialità tattile continuamente sollecitata e stimolata ed una conseguente impossibilità della separazione, mostrata ed ostentata invece come prova del proprio buon maternage. C’è proprio una confusione di fondo. Anche Gaia, la terzogenita, è stata portata orgogliosamente in fascia: anche a lei verrà diagnosticato nel corso del primo anno scolastico, una forma di autismo. Ha le stesse difficoltà di Ercole nell’imparare a leggere e a scrivere, anche se sembra una bambina più socievole e aperta con tanti amici, a detta della madre. La signora è una persona dilagante, occupa tanto spazio senza rispettare quello degli altri, raccontando una versione un po’ edulcorata delle difficoltà. Il marito resta ai margini, le lascia la scena ma, quando parla, sembra più in grado di vedere il bambino vero e non quello fantasticato, ideale. La signora riconosce che ha un legame speciale con Ercole che le impedisce di potergli dire “No” rispetto a ciò che desidera o chiede.
Dello sviluppo di Cristian racconta di un bambino allattato al seno fino a 3 anni. Quando la sorellina era nata, per un periodo la signora ha allattato entrambi i bambini. Ercole impara a camminare precocemente: ad un anno va spedito. E’ con la comparsa del linguaggio che emergono le prime stranezze, a detta della nonna paterna, a cui però la signora, ancora in lotta con la suocera, non dà molto credito. Il controllo degli sfinteri non è ancora a tutt’oggi pienamente raggiunto: si sporca le mutande, emanando cattivo odore. Ha interessi ristretti, ripetitivi a cicli. Ama travestirsi e rappresentare più e più volte una scena, dando voce ai vari personaggi che la abitano. A volte, soprattutto alla madre, chiede di ripetere o di rispondere a delle domande, in modo incalzante e ripetitivo tanto che alla fine lei si sente stremata ed esausta. Allo stesso tempo, non riesce a sottrarsi a questo circolo vizioso in cui credo che Ercole chieda di essere fermato, ma la madre non riesce a comprenderlo: confessa che per lei è stato molto difficile comprendere gli stati d’animo dell’altro, e da più giovane le persone le sembravano come dei manichini.
Ad incrinare il quadro di bambino buono, gentile e sensibile, compare, direi finalmente, l’elemento aggressivo: Ercole a volte afferra per il collo il suo interlocutore e solo a fatica allenta la presa. Lo ha fatto con la madre ed anche con il fratello più grande che, in quanto tale, è riuscito a difendersi. Temono questo aspetto sia nei confronti della sorella più piccola sia riguardo alla crescita: come farà, cosa succederà quando sarà un adolescente ed avrà più forza? Questa preoccupazione mi sembra più congruente alla realtà rispetto all’imparare a leggere e a scrivere per poter diventare lo scienziato che vuole essere. Forse è per questo che Ercole ama i cattivi? Solo quando è in questa versione “pericolosa” viene visto per quello che è, diversamente c’è un bambino immaginario, fantasticato che ha preso il suo posto.
Questo aspetto dell’aggressività suscita in me sentimenti e pensieri opposti: allora, mi dico, ci sono parti vive e che si agitano, non c’è solo sensualità, sensorialità e adesività, però la rabbia è primordiale anche perché non è stata sufficientemente contenuta e trasformata dalla rêverie materna, dal gioco proiettivo/introiettivo mediato dalla relazione primaria. Sarò io in grado di svolgere questa funzione con un bambino non più piccolo?
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Alla fine di quasi due colloqui con i genitori, non ho un’idea di bambino e non so che bambino andrò ad incontrare. Forse però è un bene, penso: andrò all’incontro senza avere la mente già occupata come ha invece la mamma che si relaziona con un bimbo ideale e non con Ercole. Penso allo stesso tempo che anche per i genitori Ercole sia un enigma: non lo comprendono e questo genera angoscia e senso di inadeguatezza. Mi chiedo se sarò capace di essere di aiuto ed essere all’altezza delle tante aspettative, anche un po’ magiche, che sento che hanno su di me e sul lavoro terapeutico. Hanno avuto il mio nome da loro compaesani dei quali seguo il figlio. Mi sono molto interrogata riguardo ad accettare o meno questo nuovo paziente, ma ha prevalso la curiosità: seguo da anni quello che ora è un giovane uomo autistico che non parla ma scrive e mi è sembrato molto intrigante lavorare con un bambino che sa parlare ma non riesce a scrivere!
Gli incontri di assessment mi sembrano buoni: Ercole non è un bambino perso, reticente o nascosto. Attraverso il gioco di nascondino (ci vogliono anni a volte per arrivare a che questo gioco possa essere possibile) mi mostra il suo desiderio di essere cercato e trovato. Mi colpisce profondamente la sensazione che provo nel momento in cui Ercole è nascosto: sembra letteralmente sparito. C’è il vuoto. Inoltre, già al primo incontro trova il modo per presentificare nella stanza la rabbia: sceglie il toro e si interroga, mi interroga, sul suo infuriarsi quando vede rosso.
Nella seduta successiva parla e disegna dello spazio e delle stelle, come se la fuga nell’universo fosse la soluzione, la risposta che ha individuato per non diventare un toro infuriato. Disegna anche un’astronave: la terapia? Al termine degli incontri di valutazione, costruisce con i Lego un sottomarino che deposita sul fondo di un cassetto della scrivania, fiducioso di un re-incontro.
Mi sembra che lui lo sia più di me: io temo l’inaffidabilità di questi genitori, che vengono con 20 minuti di ritardo all’appuntamento, se magari non lo spostano perché hanno altri impegni. Poi penso che per lui è “così che succede”, è la sua quotidianità, la sua norma.
Con l’inizio della terapia, pur con una frequenza così lassa, Ercole atterra subito nel mondo. Risulterà un mondo popolato di mostri, di figure terrifiche: dal mostro di Lockness al dottore della peste per finire a Godzilla. Le lotte sono feroci ed ineluttabilmente arriva la morte in cui si soccombe alla violenza mostruosa. Solo recentemente è comparsa la presenza di un cucciolo, attraverso la storia del re Leone.
Anche con Ercole l’elemento narrativo è importante ed intrigante. Arriva quasi sempre con una storia da raccontare e lo fa attraverso tre forme espressive: la rappresentazione nel gioco, la raffigurazione nel disegno e la narrazione verbale, a volte come se fosse un giornalista. Al momento non mi pare di avere individuato l’esistenza di una sequenzialità prefissata. Il mio ruolo in questi casi è quello dello spettatore della rappresentazione, dell’uditore della storia con qualche possibilità di intervento attraverso un commento (su cui può essere d’accordo ed allora tace, oppure esprime il suo disaccordo – “non è cattivo, ha fame, quindi sbrana” se per esempio dico che è feroce nello sbranare), mentre posso guardare lui (questo gli piace) ma non il disegno fino a quando non è finito. I miei commenti vanno per lo più nella direzione di cogliere l’emozione che sembra dominare la scena. Questa ripetitività a tre livelli espressivi differenti la penso come una forma ecolalica: la sua mente è catturata da quel tema, quel personaggio e ne resta invischiata non riuscendo a porre il limite.
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Ed io sbadiglio. Più che descrivere il mio stato come intorpidimento, cosa che in parte c’è, l’immagine che sento maggiormente calzante è “fame d’aria”, come se mi sentissi soffocare in un luogo angusto in cui non c’è abbastanza aria per respirare, per essere attivi. Viene alla mente sia il Claustrum di Meltzer, pensando sia alla cacca che non può essere lasciata andare, ma la si trattiene forse solo così sentendo di esistere (vedo che trattiene attivamente, contraendo i glutei e a volte camminando in modo rigido), sia all’idea di essere stato tenuto molto a lungo “in fascia”, senza poter respirare liberamente, rimanendo intrappolato nel corpo e nel bisogno di rassicurazione della madre che poteva essere soddisfatto solo concretamente attraverso il sentirsi addosso il suo bambino (come una scibala fecale?).
Emergono molto spesso i temi della rivalità connotata da invidia per non essere il figlio capace, predestinato alla successione, oppure per non essere il capo che viene ucciso per prenderne il posto, volendo il suo potere e la sua compagna da portare a letto, facendo un gran rumore ritmico. Oltre alla più classica interpretazione kleiniana della presenza/conferma di un edipo primitivo, credo che queste scene parlino del mondo violento di emozioni non modulate, non contenibili, non lavorate da una rêverie materna attenta e comprensiva. La signora non sembra avere uno spazio interno di accoglienza, è inconsapevole degli aspetti sadici e violenti del figlio: racconta, quasi orgogliosa delle prodezze, della pazienza riguardo alle minuzie del figlio: “gli piace catturare gli insettini e strappare le zampette e le ali piccoline” dice sorridendo.
Con l’arrivo delle vacanze estive Ercole riesce ad accennare alla solitudine del mostro di Lockness come risultato del suo essere cattivo. L’interruzione estiva si prolunga di un mese: torneranno ad ottobre perché prima i genitori “avevano impegni” e non potevano portare Ercole in terapia. Mi sento furiosa. Anch’io.
Alla prima seduta in ottobre, Ercole entra in studio correndo e chiede di andare in bagno! La separazione estiva ha portato a qualche frutto, penso. In seduta il tema è il Titanic ed il suo affondamento, ma soprattutto la possibilità, da parte degli scienziati, di recuperarlo: è il poter recuperare il nostro lavoro e rapporto dopo essersi inabissato per così tanto tempo. Ma sono altri gli elementi che mi colpiscono. Il primo è che nel disegno riempie con il colore l’area dello scafo della nave con il rosso ed il nero.
Comincia ad esserci una prima idea, percezione di uno spazio interno? In secondo luogo, quando parla della nave che si spacca ed affonda, io percepisco “SI SCACCA”. Il disegno sembra darne conferma: le eliche della nave, sembrano in effetti escrementi in uscita. Parlo della paura che lo “scaccarsi” implichi lo spaccarsi, che chissà se si può pensare di poter semplicemente lasciare andare. Sta parlando anche della possibilità di lasciare andare la madre, spaccando un’unità simbiotica? “Scaccarsi” lasciando andare le feci intese come oggetto autistico che, come ci ha insegnato Francis Tustin, può rappresentare un’estasi inebriante quasi costante nel corpo, distogliendo così l’attenzione dal dolore inesprimibile del mondo esterno (Tustin, 1986).
L’interesse per l’interno emerge anche dai disegni di e su Godzilla, nella versione robotica del quale riesce ad immaginarsi un interno meccanico abitato da scienziati che manovrano leve e pulsanti, oppure anche gli aerei o i carri armati che sparano, hanno un interno pieno di bombe e fuoco. Del Godzilla animale invece, pur riconoscendo che se ferito sanguina, non riesce però ad immaginare e disegnare nulla, anche se cerco di indirizzare a ciò la sua attenzione (“Chissà cosa ha dentro Godzilla!?”).
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Quando Ercole lavora a questi disegni, si mette il cappuccio della felpa sulla testa e sta in piedi davanti al tavolo. Se guardo il suo profilo, mi si sovrappone l’immagine di Godzilla: stessa posizione, un po’ curva in avanti, testa un po’ abbassata … gli mancano giusto le scaglie sulla schiena. Non posso non pensare che si senta distruttivo, forse con quel desiderio di liberarsi da parti interne incendiarie e da legami asfissianti che lo hanno “modificato”: mi racconta infatti che Godzilla è il frutto di esperimenti di scienziati che lo hanno trasformato nel mostro che è diventato.
C’è stato un momento, nella seconda seduta dopo il rientro dalle vacanze estive, in cui mi ha confidato: “Devo dirti una triste notizia … SONO stato adottato”. Dopo un attimo di silenzio in cui ero rimasta sbalordita e in cui dicevo tra me e me “Ma i genitori non me lo hanno detto!”, sorridendo Ercole aggiunge: “Sto scherzando! Lo so che sono nato dalla pancia della mia mamma”. Mi sono molto interrogata su questa affermazione fatta “per scherzo” ma alla quale per un momento ho creduto. Sente di non voler appartenere a quella famiglia? Sente una diversità che lo differenzia dagli altri membri? Nelle sedute successive parla di storie dove c’è un cucciolo abbandonato: c’è un sentirsi solo? Ha dovuto diventare grande da solo, come nella storia da lui narrata?
Ercole ha anagraficamente oramai 10 anni. E’ un preadolescente? E’ un pre-pubere? Difficile a dirsi: i genitori mettono in evidenza lo scarto di due anni rispetto ai coetanei che è stato riferito loro dall’equipe del servizio di Neuropsichiatria Infantile, come a negare, di nuovo, la crescita del figlio. Joshua Durban scrive che ritiene positivi la presenza degli elementi della gelosia e della rivalità edipica quando li rintraccia in bambini con diagnosi di disturbo dello spettro autistico. Dobbiamo, possiamo essere allora ragionevolmente fiduciosi? Se da un lato sento che la terapia sta progredendo, sta facendo il suo corso, dall’altro continua a rimanere molto fragile e problematico il contesto familiare. Per questo ho dato la mia disponibilità ai genitori, che continuano a rimanere resistenti all’intensificarsi delle sedute, ad incontrarli mensilmente, cercando di aiutarli a comprendere meglio il bambino Ercole reale e, auspicabilmente, il bisogno di un più inteso lavoro terapeutico.
Prima di avviarci verso la conclusione vorrei fare alcune brevi considerazioni riguardo alla tecnica con i bambini dello spettro autistico. Anna Alvarez nel 1992 introdusse la necessità di una tecnica più attiva, che fosse capace di “richiamare” l’attenzione del bambino quando appare più perso. In un suo testo successivo del 2012, l’autrice pone l’accento sulla necessità di una tecnica in cui l’analista esprima “un interesse emotivamente accentuato” (pag. 37). Potremmo allora pensare che il Pistolone ed i Pistolini abbiano raggiunto Leo meglio di qualunque interpretazione dotta? Questa modalità, continua la Alvarez, permette di meglio raggiungere l’immaturo proto-parlante che c’è nel paziente, e che cerca di evolvere, aggiungerei io. Più recentemente Bonifacino (2023), che sembra muoversi sulla stessa falsariga, sostiene l’importanza di accogliere tutte le manifestazioni del paziente, anche quelle più frammentate, come una comunicazione ed un potenziale punto di inizio per un incontro dando ad essi un significato ed un valore comunicativo afferrato attraverso il controtransfert, o la reverie. Sostiene infatti che la rappresentazione di un affetto e la rappresentazione del sé provengono dalla stessa matrice simbolica ed ha luogo gradualmente attraverso un processo di differenziazione dell’io all’interno della cornice di una relazione intersoggettiva. “L’analista presenterebbe sé stesso come un nuovo oggetto che rende il paziente capace di entrare in una dimensione simbolica che conduce alla soggettivazione” (Bonifacino 2023, pag.41).
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CONCLUSIONI
Nel cercare ora di tirare un po’ le somme, mi ritrovo ad avere più interrogativi che risposte ed un po’ mi smarrisco. Mi consola il pensiero di Bion quando affermava che la risposta è il malanno della domanda, se essa tende a chiudere e porre fine all’interrogarsi e al problematizzare.
Per esempio mi chiedo se le diagnosi riguardo ad entrambe le situazioni fossero corrette. Onestamente il tema della diagnosi non mi ha mai appassionato, ma mi rendo conto che non può essere bypassato facilmente. Se, per esempio, diamo per vera la diagnosi iniziale a Leo, potremmo pensare che la trasformazione che si è verificata senza aiuto terapeutico, oltre che essere frutto del lavoro della famiglia, potrebbe essere attribuito anche a quelle parti non autistiche della personalità che sono sempre al lavoro. Sono quelle stesse parti a cui anche noi analisti parliamo in terapia, con le quali ci alleiamo perché possa esserci un’evoluzione ed uno sviluppo (A. Alvarez).
Un altro elemento di riflessione che potremmo cogliere in entrambe le situazioni cliniche è l’elemento aggressivo: non solo quello agito concretamente, ma anche quello rappresentato o incarnato (Ercole sembra Godzilla). Potremmo pensare che è la rêverie ad essere risultata difettosa o mancante in vario grado: le mamme si sono trovate entrambe a patire situazioni depressive che le hanno portate a non riuscire a prestare la loro mente, il loro cuore e la loro comprensione al proprio bambino. Il lavoro di trasformazione delle emozioni primitive, delle angosce ed ansie terrifiche non è stato possibile: diventa allora il compito che l’analisi, la psicoterapia si trova a dovere svolgere, che il paziente abbia 9, 12 anni, oppure 3 o 5. Compito dell’analista sarà naturalmente quello di sintonizzarsi al livello del suo paziente, di nuovo 9, 12 anni o 3 o 5 che siano.
Quando l’aggressività diventa violenza però, a 9 o 12 anni può far paura. E questo può essere un problema da non sottovalutare. E’ compito del lavoro analitico trasformare quel mondo selvaggio, popolato da elementi beta direbbe Bion, parti grezze e primitive che attendono di essere metabolizzate e trasformate in elementi di pensiero, in emozioni modulate e contenibili. Non dovrebbero restare silenti sotto la neve, o annidarsi da qualche parte come dinosauri, come hanno fatto rispettivamente Leo e Ercole nel corso degli anni.
Le recenti riflessioni sulla tecnica negli stati autistici, ci sollecitano a considerare ed accogliere tutte le manifestazioni, anche quelle più frammentate, come delle comunicazioni il cui senso viene afferrato attraverso il controtransfert. Anche l’ecolalia quindi può essere allora considerata come una forma di comunicazione interrotta, come spesso lo sono le azioni dei bambini autistici che sembrano dover frammentare, spezzettare l’esperienza e la relazione con l’altro. Anche Ercole, nel suo raccontare, spesso si ferma, torna indietro, ripete … come se fosse difficile andare avanti spedito, tenere il filo ed il contatto. E’ un difficile punto di equilibrio di cui l’analista è continuamente alla ricerca: il rendersi attivo senza coprire, anticipare o sostituirsi al paziente che, allo stesso tempo, si perde facilmente se viene lasciato troppo da solo, si smarrisce e ciò che si era costruito fino a quel momento, può perdersi o crollare, come accadeva ad Leo.
In che modo, allora, l’adolescenza si coniuga con l’autismo? Nel consultare la letteratura in vista della stesura di questo lavoro, mi sono resa conto che non molto è stato scritto in questo senso: si parla più di infanzia che di adolescenza. Mi sono fatta l’idea che questo possa essere attribuito, tra le molteplici ragioni, anche al fatto che sono e restano centrali aspetti primari e primordiali della vita psichica: lo schema e l’io corporeo, la separazione che porta all’individuazione ed oggi
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aggiungeremmo alla soggettivazione, la comparsa della percezione e valorizzazione del proprio interno, il riconoscimento dell’altro non solo come separato dal sé, ma anche come dotato di un proprio interno soggettivo differente. Elementi questi che hanno come epoca di formazione e insediamento la prima infanzia, il tempo e la crescita avranno il compito di strutturarli ed arricchirli sempre più. Se o quando questo sviluppo non è stato possibile, ecco che si verifica un blocco, un arresto fino a quando non sarà possibile acquisirli ed allora la crescita potrà riprendere il suo corso. In questo senso ho letto l’articolo di Halloway (2013) in cui mette a confronto il proprio lavoro clinico con due ragazzi adolescenti, entrambi con autismo ad alto funzionamento, nel loro tentativo di instaurare relazioni significative non solo con il gruppo dei pari, ma anche con le ragazze. Inizialmente incapaci di comprendere come mai non venivano corrisposti, ma anzi rifiutati o, a volte, anche derisi. Solo chi tra i due ha potuto riconoscere che l’oggetto ha un proprio mondo interno con il quale è necessario, o è auspicabile, trovare una sintonia ed una risonanza, potrà riuscire a instaurare relazioni significative, anche sentimentalmente, diversamente prenderà la scena la persecuzione e l’ostilità difensiva verso l’altro percepito come nemico ed iniquo. Dicono che Leo non possedesse un autismo ad alto funzionamento, ma sembra che sia riuscito a bonificare ed umanizzare il proprio mondo interno e a sperimentare una certa delicatezza di sentimenti verso il sé e verso l’altro. Chissà se e come evolverà Ercole.
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